La critica
Estratto dall'articolo di Ramon Alcoberro pubblicato su "Lignes" 28, 1996, pp.53-60, il brano qui proposto tenta di analizzare le cause del sostanziale oblio in cui, ancor oggi, Vladimir Jankélévitch è relegato dalla comunità filosofica internazionale. Traduzione di Carlo Miele.
Non so che e superamento del nichilismo
Qualche
anno fa Èlisabeth de Fontenay si chiedeva per quale motivo Jankélévitch
restasse,
al momento della sua morte, un filosofo minore,
misconosciuto fuori dagli ambienti culturali francofoni. Proponeva una risposta
che oserei definire «strategica»: Janlélévitch - per effetto soprattutto
dell'esperienza della guerra - si sarebbe allontanato volontariamente dalla
tradizione filosofica intesa in senso stretto, cioè dalla tradizione tedesca.
Lui, che in gioventù studiava Schelling, avrebbe voluto cercare i materiali per
la propria riflessione in un'altra tradizione, che oso definire «mediterranea»,
difficilmente riconosciuta dall'accademia, che pone spesso ai margini chi si
accolla il rischio di non dimenticare una delle verità più flagranti del
Sud:le anime non soltanto hanno un corpo, ma esse «sono» in un corpo. Ecco che
per secoli si è dimenticata l'affermazione greca secondo la quale anche i miti
costituiscono una forma di filosofia. Si è creduto, ed è assurdo, che un
discorso che si richiama alla razionalità astratta sarebbe meno mitico. Jankélévitch
sarebbe dunque, come tanti altri filosofi del Sud, troppo «letterario» per gli
uni e troppo «barocco» per gli altri. Tutti coloro i quali si sono dedicati,
dall'esterno, alla cultura francese, o a altre culture mediterranee, lo sanno
bene. Quando noi ci chiediamo: «perché la filosofia?», noi incontriamo una
tradizione rifiutata, radicata al Sud: quella che rivendica, in opposizione al
nichilismo ordinario, degli elementi di pluralismo metodologico; quella che
prende volentieri il corpo e il presente come criteri di valorizzazione, senza
scadere nell'apologia ingenua del mondo quale è. Sembra che la
filosofia, a partire dalle sue determinazioni hegeliane, sia un pensiero
costruito attorno all'asse della storia, centrato su un solo livello di
temporalità - il futuro - e su una sola dimensione spaziale - la coscienza
divenuta Ragione attraverso qualcuna delle sue innumerevoli astuzie. Se la
filosofia non è altro che questo, è giunto il momento di sancirne la morte.
Secondo
la mia sensazione, la filosofia classica a già esaurito tutto ciò che essa
prometteva. La realizzazione di una «politica della ragione» ha condotto a due
vicoli ciechi quasi simmetrici: il socialismo, divenuto la negazione della
società in nome dello Stato, e il liberalismo, che diventa la negazione della
libertà in nome del consumo. La politica della ragione era un'ipotesi di lavoro,
negata dalla tradizione protestante - luterana e calvinista nella sua genesi.
Essa prendeva le mosse da un principio profondamente rispettabile nella
sua astrazione: la morale (quella della giustizia, non quella della compassione,
vi prego di non dimenticare questo dettaglio) deve guidare la politica. Si
trattava, in fin dei conti, di cercare un principio teorico universale - un
imperativo categorico - e di situarlo al di sopra del caso o del vile interesse.
Si dimentica soltanto che tale non era la politica del Rinascimento e del
Barocco nel sud Europa. Il paradigma dell'uomo latino era definito, nel XV e XVI
secolo, come «uomo universale», le cui tre caratteristica erano la «fortezza»
(la forza di volontà), la «virtù» (l'arguzia, la capacità d'azione)
e lo «studio» (il lavoro nella realizzazione del compito). C'è
un'intera tradizione, italiana (da Machiavelli a Malvezzi), castigliana (Graciàn),
persino francese (mi arrischio a vedervi Diderot e il Montesquieu dei Pensieri),
spesso ignorata perché considerata non all'altezza dell'universalismo etico. Ciò
che i moralisti chiamavano la «casistica», partiva, malgrado la scarsa stima
attuale, da una considerazione molto più realista dell'uomo. Né angelo né
bestia, ma prodotto dell'azione e del tempo - frutto di ciò che la tradizione
del Rinascimento e del Barocco chiamava fortuna -, l'uomo non è
riducibile a un programma, né ad uno slogan, né ad una sola dimensione. Non
soltanto faber, non soltanto ludens, ma la tensione stessa che si
stabilisce tra questi due livelli. Nel linguaggio di Jankélévitch ciò
corrisponde al non so che, il soggetto ineffabile della grazia.
Io
credo che, per trarre profitto in maniera creativa dal pensiero di Jankélévitch,
occorra fare lo sforzo di situarlo all'interno di una corrente di maestri del
pensiero extramuros della filosofia. Come fonti ispiratrici, egli
rivendica due pensatori spagnoli, il barocco Gracian e Unamuno, morto durante la
guerra civile. Egli sarebbe d'accordo nel rilevare anche il suo contatto con una
tradizione tedesca minore (quella di Georg Simmel) e suppongo che occorrerebbe
porlo nel contesto, che immagino immensamente ricco ma di cui so molto poco, del
giudaismo russo. Ciò non significa affatto, secondo me, sottovalutare la sua
traiettoria accademica e bergsoniana, ma senza questa prima dimensione, che
attiene ad origini più profonde di quelle dell'hegelismo, noi potremmo
difficilmente comprendere gli elementi che, nel «volere» di Jankélévitch, ci
conducono verso una critica del nichilismo. Gracian intendeva dimostrare nel
barocco castigliano che sostanza e circostanza sono due categorie che si
implicano mutuamente. Contro i tentativi di edificare una filosofia a vocazione
perenne, facendo affidamento sulle circostanze e sul momento, ma anche contro la
tentazione cinica di negare la sostanzialità al solo richiamo alla
attualità mutevole, occorre rivendicare, come programma d'analisi per un futuro
umanamente pensabile, che non c'è sostanza nel substrato di un corpo e che
nessun accidente costituisce un puro, accidentale, «caso».
La
linea interpretativa proposta da Nietzsche sul nichilismo è nota: la cultura
occidentale (platonismo,cristianesimo, Illuminismo) è stata, strutturalmente,
un errore. Fin dall'origine erano presenti i fattori che dovevano
ineluttabilmente portarci a finire male. È perché noi abbiamo dimenticato la
parte dionisiaca dell'uomo e sopravvalutato la ragione, che viviamo la monotonia
del nostro cattivo presente. Ritornano alla memoria le parole di Goya,
costantemente chiamato in causa: «Il sonno della ragione genera mostri».
Contro questa semplificazione della tradizione, il cui contenuto implicito è il
disprezzo della cultura, Jankélévitch appartiene al piccolo gruppo di quelli
che pretendono che la tradizione culturale non sia un errore. Il cammino che
pretende allontanarsi dal nichilismo, che disprezza la cultura è erroneo, perché
è altrettanto culturale, in quanto linguistico. È falso che sia successo,
hegelianamente, ciò che doveva necessariamente capitarci, e che il castigo
rappresentato dalla decadenza della cultura sia ciò che ci meritiamo per aver
perduto non so quale chiave ermetica. Contro l'ipotesi di un pensiero alla
portata solo degli happy few, che crede volentieri che la soluzione della
povertà passi per la creazione di gruppi ermetici di iniziati da un preteso
segreto, bisogna ricordare che i segreti (tranne che in amore), sono, anch'essi,
miserabili. (...)
Mi
si chiederà: come può Jankélévitch contribuire al superamento del nichilismo?
Mi permetterei di rispondere richiamando l'immagine doppia di Janus, protettore
dei commercianti e dei ladri. Per la sua formazione centro-europea, c'è in lui
la serietà di una conoscenza profonda della tradizione filosofica e un
impressionante rispetto della tradizione culturale. Occorre affermare che la
tradizione culturale non costituisce un errore e che non possiamo liberarcene
altrimenti che assumendola. Ma, allo stesso tempo, la sua devozione per la
musica, arte immateriale per eccellenza, e la sua preoccupazione per le
tradizioni culturali del Sud hanno evitato che la sua filosofia diventasse la
pura giustificazione dell'esistente.
Dopo
Schopenauer, le teorie classiche della volontà sono caratterizzate dalla
rottura dell'equilibrio tra il non più del passato e il non ancora
del futuro. Il poeta Antonio Machado lo riassumeva in un verso: «l'oggi è
brutto ma il domani è mio». C'è un'alienazione dell'uomo che si caratterizza
per il fatto di subordinarlo al futuro, futuro-progetto più entusiasmante
dell'oggi, troppo grigio. Caratterizza invece la teoria del volere di Jankélévitch
la tensione, di fattura classica, tra questi due punti. Già Graciàn aveva
formulato questa massima: «conoscersi è cominciare a correggersi». Non si
tratta soltanto di conoscersi, come nella sentenza delfica, ma di correggersi da
soli. Il che è impossibile se ci si distende sul passato, morto, o sul futuro,
non avvenuto. Volere non costa che la pena del volere (Il non so che e il
quasi niente). È la fortezza, quale la consideravano i
rinascimentali e gli uomini del Barocco, intesa come volontà del presente.
Nessuna subordinazione a un progetto eroico, sovrumano, ma realizzazione, nel
concreto - e nel silenzio - del suo proprio essere. Il contrario più radicale
di questa fortezza è la piccola volontà della cattiva volontà, così
cattiva a forza di non avere quasi nulla di buono da non avere quasi nulla di
cattivo.
La
crisi nichilista della cultura si produce nel momento della rottura del legame
tra volere e essere. Contro certe interpretazioni del pensiero nicciano,
sembra dunque, in questo senso, che ciò che renderebbe possibile la fuoriuscita
dal vicolo cieco nichilista non è la rottura con la metafisica dell'essere e
dell'essenza; che occorre invece approfondire la metafisica e non subordinare
l'essenza umana ai miraggi del futuro. Non si aumenta il superamento del
nichilismo negandolo dal versante della proclamazione che la costruzione
linguistica di proposizioni metafisiche è aberrante, ma insistendo sull'unica
via pensabile: che cos'è essere, per dirla con Parmenide. Perché, se
noi non sappiamo cosa sia l'essere, noi non sapremo, a maggior ragione, cosa
siamo. Noi siamo un corpo. Noi siamo un presente. Noi siamo un Io. Noi non siamo
un non-so-chi unamuniano - nichilista e patetico - ma un non-so-che. E con tutta
la forza del che, noi siamo una capacità di precisare e di distinguere.
All'ultima
pagina del Non so che viene dichiarato: la volontà è la sola causa
decisiva e sufficiente. Reale, il rischio di essere delusi. Al termine di più
di 250 pagine di sottili disgiunzioni, di analisi e metafore, si potrebbe
credere che la messe è uno slogan alla Baden Powell o alla De Coubertin. Ma se
abbiamo seguito l'itinerario spirituale (o meglio: carnale) che ci si propone,
noi scopriremo che questa non è una volontà che si autodetermina nel senso
zoologico della tradizione nicciana che, in fin dei conti, sotto il velo della
volontà di potenza, nasconde una volontà del niente. Questa è una volontà
cosciente di essere negata come frutto di una civiltà, non di un ipotetico
paradiso rousseauiano. Non si tratta di una volontà che si subordina alla
storia del futuro angelico: nella volontà raccontata da Jankélévitch, il
tempo della serietà è il presente. Non una volontà onnimoda, ma autocosciente
e, pertanto, misurata.
Superare il nichilismo significa riconoscere il ruolo positivo del limite, contro la concezione nicciana del limite come intollerabile barriera dell'Ubermascher. È perché c'è un limite che può apparire il quasi nulla della grazia. Se ho ben compreso la lezione della volontà di Jankélévitch, si tratta di superare due visioni ugualmente erronee: quella dell'estetismo morale, che corrisponderebbe all'anima bella, convinta di poter giudicare il mondo dal suo isolamento, facendo a meno di qualsiasi altro referente, e quella della coscienza infelice, sempre angosciata dalla realizzazione del progetto a venire. In L'avventura la noi la serietà, Jankélévitch ricorda che, in Platone, la serietà non è la guerra, ma la pace, i canti, le danze. Noi potremmo dire similmente che il superamento del nichilismo non è l'approfondimento della miseria né la diffidenza nei confronti del linguaggio, ma il recupero della fiducia nella capacità creatrice di questo margine - il non so che - che rende possibile il pensiero e la speranza contro ogni speranza.